Le Gorilla di New York. Cinquantacinque donne alla conquista della parità artistica nel mondo dell’arte

Vi è mai capitato di aggirarvi per un museo, o per una galleria d’arte, e chiedervi quante delle opere esposte siano state realizzate da uomini e quante da donne? Oppure avete mai fatto caso alla percentuale di artiste donne menzionate nei manuali di Storia dell’arte?
No, vero?
Nemmeno io, fino a oggi.

Nella primavera del 1985 si tenne al MoMa (Museum of Modern art) di New York la mostra An international Survey of Recent Paiting and Sculpture, volta a esporre i più alti capolavori di ingegno artistico degli ultimi tempi.
Tra i 169 artisti esposti, però, solamente 13 erano donne.
Nessuno di questi appartenente a un’etnia diversa da quella occidentale.
Perciò venne spontaneo chiedersi: «Che fine hanno fatto le donne? E le minoranze etniche?»
«Il talento artistico è roba da soli uomini (bianchi)?»
«Cosa sta capitando (o continuando a capitare) nel mondo dell’arte?»
Fu allora che Frida Khalo, Gertrude Stein e Diane Arbus, per citarne solo alcune, dopo aver recensito tutte le gallerie d’arte newyorkesi e aver notato la netta disparità di genere delle opere esposte, brandirono una maschera da gorilla e si riversarono per le strade di New York al grido di: Le donne devono essere nude per poter entrare in un museo?

Questa celebre domanda, che rese famoso il gruppo delle ragazze Gorilla, portò il pubblico a riflettere sul ruolo della donna nella società e sulla strumentalizzazione del corpo femminile.

Nate come Guerrilla Girls, la leggenda narra di come un giornalista inglese ne sbagliò lo spelling, trasformandole in Gorilla. Un movimento femminista a tutti gli effetti nel quale, però, l’identità delle attiviste rimaneva anonima, celata appunto da una maschera da gorilla e protetta da pseudonimi di artiste donne defunte.
Il fine era evidente: spostare l’attenzione sul messaggio e non su chi ne curava la diffusione, denunciando così il razzismo e il sessismo nell’arte.

Come?
Attraverso una vera e propria missione di propaganda che prevedeva l’affissione di cartelloni pubblicitari, dal contenuto fortemente ironico, nei bagni dei musei e per le strade di New York.
«Noi usiamo il senso dell’umorismo per diffondere informazioni, provocare discussioni e mostrare che le femministe possono essere divertenti»,  affermano durante un’intervista.

Uno dei cartelloni  più celebri parlava proprio dei “pregi” di essere un’artista donna: «lavorare senza la pressione del successo; essere coscienti che la propria carriera potrebbe decollare dopo gli ottant’anni; essere rassicurate dal fatto che qualsiasi tipo di arte che si farà verrà bollata come femminile; avere il potere di scegliere tra carriera e maternità; essere incluse nelle versioni revisionate della storia dell’arte; non dover affrontare l’imbarazzo di essere chiamate geni; potere apparire nelle riviste d’arte con il travestimento da gorilla».

La rivoluzione messa in atto dalle Guerrilla Girls si è propagata prima in tutti gli Stati Uniti e poi oltre oceano, con esposizioni a Londra, Atene, Rotterdam, Sarajevo e, nel 2017, a Bologna in occasione del festival di street poster art Cheap.
I loro slogan sono entrati all’interno delle università e dei musei sotto forma di convegni ed esposizioni temporanee, per discutere con il pubblico di sessismo, di discriminazioni, di parità e di diritti.

Il movimento delle Guerrilla rivive sicuramente nell’eco delle manifestazioni femministe degli anni  ‘70, un decennio che vide non pochi trionfi per quanto riguarda il ruolo della donna nella società statunitense con l’approvazione di alcuni storici provvedimenti come la legalizzazione del controllo delle nascite per le persone non sposate (1972), la legge sull’aborto (1973) e la legge sulla parità dell’educazione femminile nelle scuole (1974).
A differenza delle “colleghe” degli anni ’70 però, dedite alle marce per le strade della città, l’attenzione delle ragazze Gorilla fu rivolta maggiormente al modo e ai mezzi con i quali si comunicava un messaggio.
Per essere ascoltate le femministe avevano bisogno di un tipo di comunicazione efficace ed essenziale, al passo con i tempi, visibile a più persone possibili e facilmente comprensibile da tutti.
Una comunicazione spogliata da qualsiasi intento commiserativo che rischiava di far decadere il messaggio sotto la categoria “Lamentele da femmine”.
L’idea di base era quella di attirare l’attenzione dei passanti, in un contesto urbano spesso di disattenzione e di fretta, grazie a slogan efficaci, colori forti, statistiche e numeri.
Il numero è inconfutabile, attendibile, comunica credibilità, molto più delle parole.

Nel tempo, le loro apparizioni pubbliche si sono fatte sempre più frequenti man mano che il movimento ha preso campo in tutti gli Stati Uniti e le loro idee si trovano espresse in alcuni testi come Bitches, Bimbos and Ballbreakers: The Guerrilla Girls’ Guide to Female Stereotypes (Stronze, oche e rompiscatole: la guida delle Guerrilla Girl’s agli stereotipi femminili), o The Guerrilla Girls’ Art Museum Activity Book (L’activity group delle Guerrila Girls al museo d’arte).
L’immediatezza e l’apparente leggerezza dei metodi comunicativi hanno fatto sì che il messaggio di parità e uguaglianza delle Guerrilla venisse diffuso nella maggior parte degli stati, contagiando le nuove generazioni e spingendole a guardare il mondo dell’arte in modo diverso.

 

 

 

 

 

 

Il ruolo di subordinazione della donna è una realtà quotidiana anche nel modernissimo e civilizzato mondo occidentale.
Ne siamo quotidianamente sia vittime che carnefici, assecondando un sistema con il quale siamo cresciuti e che spesso non riusciamo a mettere in discussione.
La forza di questo gruppo di attiviste, che ha ormai oltrepassato il 30° compleanno, è racchiusa tutta in quell’ironia apparentemente spensierata e nella capacità di arrivare dritte al punto, rendendo i loro slogan virali.
Hanno messo in risalto quelle falle nel mondo dell’arte (e, successivamente, in contesti come il cinema) che tutti, donne comprese, hanno assimilato come la normalità, spesso stentando a riconoscerne l’ingiustizia.
La cosa più scioccante, almeno per me, è stata rendermi conto di quanto il sistema che tanto criticavo mi fosse entrato in realtà sotto la pelle  fin quasi a far sbiadire l’idea di ciò che, per me, fosse giusto o sbagliato.

È servito il lavoro delle Guerrilla Girls?
Vi lascio alcuni sondaggi fatti negli ultimi anni. Numeri alla mano, nero su bianco.

È una rivoluzione dal passo lento, quella che stanno tentando di mettere in atto le donne, in una battaglia che affonda le sue radici in profondità, nei secoli.
Silenziosa e rumorosa al tempo stesso, a volte solo apparentemente scanzonata, ma efficace se anche una sola persona, voltandosi a guardare uno degli slogan delle Guerrilla Girls, continuerà a pensare: «È possibile e lo faremo tutti insieme».

 

Martina Salvini