La Gioia di Pippo Delbono – Teatro Petrarca, 16 marzo 2019
A tutti porgi orecchio, a pochi voce, dice Polonio a Laerte.
È un’esortazione ad accogliere sempre l’opinione altrui, continuando però a coltivare la propria intelligenza emotiva. Unica, originale, autentica.
Delbono ha una voce a tratti alterata dall’emozione, perché porta con sé quella consapevolezza di chi non può liberarsi dall’obbligo di affrontare la morte, il thanatos.
Quello che viene messo in scena è l’ultimo tabù occidentale: il trapasso. E la voce del regista è spesso tenera, rassicurante, perfino ironica. Si respira gentilezza, incarnata dall’immagine di Tanato, fanciullo alato proprio come Eros, l’amore. Amore e carne, come dice più volte Delbono.

Si capisce subito che per lui vita e teatro sono due cose inscindibili; «questo spettacolo rinasce dalla morte di Bobò», sono le prime parole pronunciate. Bobò. Il sordomuto, l’analfabeta. Assente con il corpo ma presente con la voce. Versi, vocalizzi, strilli di un bambino che manifesta una felicità primitiva e rudimentale quando finalmente si trova tra le braccia del padre e della madre. Sì, perché Delbono è questo: un genitore sociale, che a volte torna a essere figlio.
Il racconto è sempre aperto e si nutre della relazione tra il regista, gli attori, i collaboratori: la ballerina Ilaria, il rifugiato Pepe, l’ex allievo della madre Gianluca. Incontri casuali e non, in cui ci si prende per mano mentre si intraprende insieme un viaggio lungo il confine “interno”, quello dei diseredati della terra, dei borderline, dei freaks, dei matti, al grido di «mare nostro che non sei nei cieli», preghiera laica di Erri De Luca.

Nell’oscurità del teatro, in platea, sfilano i personaggi che rappresentano una vera e propria allegoria sulla diversità; passo dopo passo si è sfiorati dalla poetica della compassione, dove, almeno nei sentimenti, possiamo essere tutti uguali. In questo cammino si sussegue costante il passaggio dal buio alla luce, mentre il buddista Delbono osserva l’origine della sofferenza e parla della natura effimera dei tre veleni: avidità, ira, stupidità. Inquinamenti e propensioni che creano le condizioni per l’insorgere del dolore, meccanismi mortiferi.
C’è un metodo in quest’opera, ma non si tratta di un criterio autoritario, perché è evidente che solo fuori dal metodo stesso ci può essere la liberazione. La banalità diventa significativa, il corpo si trasforma nella carta dove il teatro è scritto.

Si finisce per essere sommersi, come Delbono, da composizioni floreali calate dall’alto, come se fosse in corso una festa, uno sposalizio, un compleanno, oppure sistemate per terra, come mazzi di fiori deposti su una tomba.
È il teatro, quello vero; una linea immaginaria che va assolutamente oltrepassata per ritrovare la nostra umanità scardinata, amputata. È una manifestazione di amore autentico dove gli esseri umani sono barchette di carta, sacchi di stracci, foglie secche. Dall’incontro sereno con l’impermanenza nasce lo spettacolo della vita di Delbono, che ci aiuta a comprendere che oltre la paura c’è un’esplosione: è la gioia.
Gea Testi
foto di Luca del Pia