Che albero insulso la betulla. Vittorio De Logris non si capacitava che le sue bacchette fossero fatte
dello stesso materiale che sua nonna utilizzava per curarsi la gotta.
Aveva provato anche quelle in fibra di carbonio e le aveva curvate fino a spezzarle, in un gesto d’ira
dopo la prova generale della Sinfonia n. 5 in do minore di Mahler.
A passo svelto, si avviava verso la piazza del teatro. Nonostante il freddo, procedeva con le braccia
aperte, ripetendo con le mani i gesti sincopati, mentre il vento gli gonfiava il cappotto rendendolo
simile a una grossa palla nera da pilates.
Il fischio del tram lo scosse un attimo prima di essere investito. De Logris inciampò nel
marciapiede della pensilina e cadde con le mani avanti, grattando l’asfalto. Si rialzò di scatto,
imprecando e accelerando la camminata, fino a urtare con la spalla la porta va e vieni del teatro.
La moquette attutiva l’irruenza della sua marcia mentre si avvicinava agli orchestrali, di cui
conosceva, oltre a nome e cognome, i punti di forza e di debolezza.
Come in ogni relazione, sperava sempre in una scintilla reciproca. Ma questa volta non c’era stata.
Anzi, aveva sviluppato una profonda antipatia per il vecchio timpanista, avverso alla finezza.
Quella sera, alle 22.16, un cavo dell’impianto luci si staccò e si diresse senza vita verso la testa di
De Logris. Per difendersi dal colpo, il direttore alzò le braccia incrociando i polsi all’altezza della
fronte, ma la frustata fu così forte da scaraventarlo in platea.
Interruttore spento. I neuroni di De Logris si riattivarono solo per trasportare quel segnale di
silenzio dall’orecchio fino alla corteccia uditiva, all’interno del lobo temporale.
Aprì gli occhi e vide il naso bulboso e arrossato di Antonello Amoruso. Il timpanista gli rivolse solo
poche parole: «io ho un solo Maestro: la Natura».
Braddocks