Incontro con il regista e attore protagonista dello spettacolo La scuola delle mogli di Molière, in scena al Teatro Petrarca di Arezzo l’otto e il nove novembre 2019.

Gelosia e tradimenti. Una scenografia colorata in uno spettacolo dove umorismo pungente e amarezza si mescolano per proporre una riflessione sugli squilibri delle relazioni amorose. Ho incontrato per voi Arturo Cirillo, attore e in questo caso anche regista dello spettacolo, per una chiacchierata sull’evoluzione della figura dell’attore, del regista e sul cambiamento che ha coinvolto il teatro negli ultimi anni.

Arturo Cirillo in scena

Parlando del percorso che lei ha fatto: una carriera importante iniziata con lo studio all’Accademia Silvio d’Amico: che consigli darebbe ai giovani attori che si vogliono approcciare a questa professione?

Forse vent’anni fa avrei detto che non è molto importante fare le scuole, perché all’epoca un po’ se ne dubitava. C’è stato tanto teatro italiano d’avanguardia, di ricerca, durante gli anni Novanta, i cui attori principali non avevano fatto scuole. Carmelo Bene ad esempio dall’Accademia se n’è andato, Gian Maria Volonté idem. Era una sorta d’opposizione a un teatro di parola fortemente declamatorio. Io, pur essendo fortemente antiaccademico, ci andai su consiglio di Carlo Cecchi; quando la terminai tornai da lui che mi disse: «ora che hai finito l’Accademia ti do una parte in un mio spettacolo, però tu ti devi dimenticare di tutto quello che ti hanno insegnato». Quando l’ho fatta io era in una fase di forte cambiamento, perché non era più strutturata in modo che uscissero attori così impostati come un tempo. Si continuava però a ricevere una formazione molto classica, con autori che difficilmente poi avremmo incontrato nel nostro percorso, tipo Tasso o Alfieri.

Con l’arrivo di Lorenzo Salveti alla direzione c’è stato un momento di forte apertura dell’Accademia anche a realtà teatrali più giovani e più presenti nel teatro italiano. Credo che sia anche cambiato il mondo del lavoro, gli stessi registi infatti mi sembrano meno spaventati rispetto ad attori che vengono da scuole più strutturate, come l’Accademia stessa o la scuola del Piccolo di Milano.

Oggi quindi, direi che è fondamentale fare una scuola; il mito dell’attore autodidatta sta scomparendo e i metodi , per fortuna, stanno andando tutti un po’ in crisi. Il mondo del lavoro si è sicuramente ristretto e la scuola di teatro, se buona, deve darti una formazione tecnica e i contatti con professionisti affermati.

È possibile quindi che si sia invertita la tendenza? Ovvero che oggi un regista sia più propenso a rapportarsi con allievi che hanno fatto l’accademia piuttosto che con autodidatti?

Il fatto che un regista sia meno “spaventato” da attori con una formazione accademica credo sia dovuto anche a un cambiamento dell’idea di regia. In precedenza la figura del regista aveva un ruolo molto intellettuale, direi dominatore. La sua chiave di lettura era fondamentale, si parlava infatti di regia critica, che ora è molto in crisi. Non è mai stata una forma di teatro molto popolare; la regia di questi spettacoli presupponeva una conoscenza molto approfondita del testo da parte del pubblico. Credo che questo tipo di teatro stia diventando molto minoritario anche per dei motivi un po’ reazionari. Oggi in Italia il teatro deve riempire le sale; tutti i direttori sono terrorizzati di averle vuote, perché non c’è più lo Stato che finanzia come prima e manca l’idea di teatro pubblico. Il teatro di ricerca non ha più quella legittimazione statale che aveva un tempo. Mi sembra comunque che anche la figura stessa del regista sia in crisi, figura che magari non è cólta come prima. Quello che vedo, anche in registi a me lontani come tipo di teatro, è che c’è molto più l’idea di un attore autoriale, a cui si chiede molto più di prima di avere una visione sullo spettacolo.

L’utilità di una scuola al giorno d’oggi sta quindi anche in questo: permettere all’attore di sviluppare una propria visione in un percorso approfondito nell’arco di tre anni insieme a suoi coetanei. Personalmente mi sento più incuriosito da un attore di questo genere piuttosto che da un talento grezzo che in questo senso ancora deve maturare.

Rosario Giglio e Arturo Cirillo.

Parlando più nello specifico dello spettacolo che ha presentato: continua il suo rapporto con i classici del teatro e in particolare con Molière. Perché è importante continuare ancora a portare in scena questi testi? In cosa consiste la loro modernità?

Io ho lavorato abbastanza con i classici napoletani, avendo la fortuna di provenire da quel mondo dove la cultura teatrale è molto forte anche da un punto di vista linguistico. Ho lavorato anche su Shakespeare, ma soprattutto su Molière per tre motivi: io ho studiato francese quando ero a scuola, quindi ero piuttosto portato ad approcciarmi a quella drammaturgia. Il secondo è perché l’ho visto molto fare dal mio maestro Carlo Cecchi. Il terzo motivo è per le traduzioni di Cesare Garboli, che io considero un grandissimo traduttore di Molière. Ci sono degli autori che io sento particolarmente vicini, Molière è sicuramente uno di questi: il primo testo che ho fatto è stato Le Intellettuali, il secondo L’Avaro e il terzo questo, La Scuola delle Mogli.

Come dice anche Garboli, se l’Italia avesse avuto Molière, sarebbe un Paese migliore. Non è mai esistito un autore come lui in grado di mettere in crisi i valori di una società mettendo così tanto in gioco anche se stesso. Quello che io trovo straordinario di Molière, diversamente da Goldoni, è il suo essere spietato prima di tutto con la sua persona. La sua critica sociale è anche esistenziale, in questo sta la sua modernità. La sua capacità di mettere di fronte al pubblico in maniera così evidente le strutture profonde del legame uomo-donna, rappresentando un uomo solitamente più vecchio, più ricco, e una donna che viene strumentalizzata proprio perché c’è questa disparità tra i due. Quando misi in scena L’Avaro io pensavo alla figura di Berlusconi, perché si parla di quest’uomo che si compra un giovane amore attraverso i soldi e il potere. Nel legame sentimentale c’è sempre uno squilibrio; lui riusciva a metterlo in scena in maniera molto forte anche perché lo aveva vissuto personalmente. Si era sposato con Armande Béjart, una donna molto più giovane di lui; si sospettava non solo che gli mettesse le corna, ma addirittura che potesse essere sua figlia.

Dalle sue opere i personaggi che interpretava lui come Arnolfo, o come Alceste, non escono per niente bene. Per certi versi diventano quasi i portatori principali della critica che rivolge a se stesso, ma anche di una sfida verso le convenzioni che lui aveva portato avanti. Non c’è mai moralismo all’interno degli spettacoli di Molière, non sono personaggi che si salvano e la loro malattia diventa un’ossessione. Trovo che oggi noi siamo pieni di questi malati ossessi. Questo ci fa capire quanto Molière davvero sia contemporaneo a noi come pensiero. Continuamente io dico ai miei attori di capire come un testo possa essere possibile per loro; non deve essere visto come un reperto archeologico che bisogna per forza resuscitare. Jouvet ad esempio ha messo in scena molto spesso Molière, e diceva: «voi dovete arrivare ad un punto in cui potete dire solo quelle parole lì». Questo è esattamente l’opposto della regia critica, dove c’era Ronconi che invece ti diceva «tu questa battuta la devi dire così» e solo lui sapeva il perché. L’attore quindi deve compiere una ricerca nel testo per capire in che modo quelle battute per lui possono essere vere in un preciso contesto.

Arturo Cirillo e Valentina Picello.

L’ultima domanda si ricollega alla prossima edizione del nostro festival. Il macro tema di quest’anno sarà BE THE CHANGE, che vuol dire sii il cambiamento. Le vorrei chiedere qual è il tipo di cambiamento che lei vorrebbe vedere o mettere in atto.

Spesso io mi definisco un conservatore. Non credo nei cambiamenti che avvengono attraverso la negazione di un passato. Durante gli anni 90 del secolo scorso molte compagnie teatrali dicevano che erano senza tradizione, senza passato, che dietro di loro non c’era nulla. A me questa pare una grande fesseria. Prima di tutto se vuoi fare un cambiamento devi avere qualcosa in rapporto a cui cambiare, altrimenti sarà un’epifania (ad avercele!) e non una trasformazione. Per quando riguarda il teatro direi che questo potrà continuare a cambiare solo se viene realmente fatto nel momento in cui viene fatto. In questo modo cambierà proprio per necessità, non potrebbe essere altrimenti. Purtroppo il teatro spesso è qualcosa di archeologico, che appartiene a un repertorio che non ha nessun collegamento con il presente degli attori e del pubblico, o con il luogo concreto in cui si fa, ma non è assolutamente così. Le stesse repliche sono diverse le une dalle altre: cambia la sala, cambia il rapporto con il pubblico, cambia il momento presente in cui lo fai che inevitabilmente non può essere uguale a quello di ieri. Ne farei meno una bandiera ideologica e più un praticantato. A volte vedo dei cambiamenti che invece si fissano: la cosa bella del teatro è che tu puoi fissare poco e devi dare la possibilità ai tuoi pensieri, agli accadimenti, all’altro, al pubblico, alla tua salute di poter entrare dentro lo spettacolo. Se non si fa così allora tanto vale fare un bel video da proiettare, non vedo altrimenti perché ci dovremmo dannare a tornare sopra un palcoscenico per ripetere nella maniera più precisa e pedante possibile qualche cosa.

Rispetto ad un cambiamento più generale… noi siamo in un Paese in cui un anno e mezzo fa è nato il governo del cambiamento. Ora il governo del cambiamento non c’è più e siamo in quello del, non so di che cosa, “ri-cambiamento” forse. Per poter cambiare penso che si debba studiare e credo che ora lo si faccia molto poco. Una volta Pina Bausch fece delle audizioni ad Essen e disse: «Io non prendo nessuno, ma voglio darvi un consiglio. Tornate tutti un pochino a scuola».

Le cose vanno apprese per poterle cambiare.

La ringrazio del suo tempo, e spero di poterla rivedere al nostro Festival a giugno 2020.

Alessandra Bracciali

foto di Luca Del Pia