Se Omar Pedrini avesse un cassetto per i sogni, sarebbe vuoto. Mi sembra di vederlo, Omar, mentre li libera come fossero uccelli, con tutto il suo essere ipersensibile, malinconico e passionale. Lui è bello, bellissimo. Anzi, è la sua aura che lo è, con quell’etimologia legata alla brezza, che Walter Benjamin usava per indicare la dimensione spirituale di un’opera d’arte originale. Ecco, sì, Omar Pedrini è proprio un’opera d’arte originale.
L’intervista
Nella home page del tuo sito, la prima cosa che si legge è Rock ‘n’ roll will never die. All’origine del termine rock c’è il significato di dondolare riferito al ballo, ma rock è anche la roccia. È una frase autobiografica quella che ci accoglie?
È una citazione della canzone che è diventata un po’ il mio inno, Hey Hey My My di Neil Young. Dopo la scomparsa di Elvis esplose la disco music e tutti iniziarono a dire che il rock era morto. Da dieci anni fanno lo stesso, da quando è arrivata la trap. Ho deciso di inserire questa canzone in scaletta e guai se non la faccio durante i concerti. Parla di Elvis, di Johnny Rotten dei Sex Pistols e quindi del punk, è stata scelta da Cobain come lettera di addio quando si è ucciso. Per chi ama il rock è il Padre Nostro.
Sai che ci sono persone che hanno ancora nelle loro ex camerette la cassetta di Storie per vivere? Quando uscì era il 1992. Che storie racconti oggi con le tue canzoni?
Di storie ne ho raccontate anche per sopravvivere, dopo i tre interventi al cuore che ho fatto. Le mie storie sono sempre storie di vita. Rubo queste parole a Fellini: sono autobiografico anche se parlo di una sogliola. Sono tutti spunti che traggo dalla vita, qualche volta mi ispiro a delle poesie, ma il 90% delle mie canzoni sono autobiografiche.
Cane sciolto è un titolo bellissimo per un libro, anche se, pensando alla tua esistenza sarebbe più corretto definirti come un gatto, che, si sa, ha decisamente più di una vita. A che numero di vite sei?
Gatto sciolto non è male, lo accetto volentieri (ride). Il cane sciolto è quello più pericoloso, quello che non risponde a nessuna ideologia e a nessun padrone. La paghi molto nella vita, nella carriera ancora di più, però ne sei fiero. Sono sempre stato un anarchico di natura e non è stato facile all’inizio non scegliere partiti politici, non farmi aiutare come succede invece a quelli che si schierano. Non interessi a nessuno, ma non ti possono usare, né pro, né contro. Piano piano mi sono trovato in un mondo mio, poi è arrivata la malattia che ha aumentato il distacco dalla gente, e per otto anni non ho potuto più cantare. Quando ho ricominciato mi sono trovato isolato, però mi sono detto: sei già partito da solo una volta, a 16 anni, oggi è lo stesso. Così ho fatto. Dopo cinque anni inizio a vedere i risultati.
C’è sicuramente un lato positivo nell’essere liberi.
Tu sai che quando parlo dico sempre quello che penso. Tra me e il mio pubblico c’è un rapporto osmotico e so che a loro piace che io sia così. Non faccio parte di nessuna scuola. Con i Timoria stessi, con Viaggio senza vento, abbiamo cambiato le sorti del rock italiano, è stato il primo disco d’oro del rock. Da lì le case discografiche hanno avuto fiducia nei gruppi rock italiani degli anni novanta. È un disco seminale, importante. Fu una pazzia, un concept album negli anni novanta. Ci consideravano finiti e invece è diventato un disco guida di una generazione. C’è voluto coraggio. Se non fossi stato così pazzo avrei fatto un disco più commerciale. È il disco che ha venduto più di tutti, ed è bello questo, perché la gente non è stupida. Pensano che a dargli robe facili comprino di più, ma non è vero, a volte alle persone piace anche riflettere. Negli anni novanta eravamo il gruppo a cui tutti guardavano, chiunque imbracciasse una chitarra in Italia. Ma io non facevo parte né della scuola milanese, né della scuola bresciana. C’era la scuola fiorentina con i Diaframma e i Litfiba, ma a noi non sono mai riusciti a metterci in nessuna scuola perché la mia anarchia è sempre stata spiccata, fin dall’inizio.
Sono una grande estimatrice di Alejandro Jodorowsky. El topo grand hotel, album del 2001, è ispirato proprio al film El Topo del 1970. Il Maestro Jodorowsky è famoso per i suoi rituali psicomagici, ne hai fatto qualcuno?
Jodo ci ha regalato una bellissima poesia. Era il periodo in cui ero in tournée con lui e ho avuto la possibilità di avvicinarmi a questo grande artista. El Topo è la talpa, non il topo come credono alcuni, ed è simbolica. Volevo che il continuo di Viaggio senza vento fosse nel mondo della psichedelia. Jodorowsky mi ha letto anche i tarocchi. Non vuole soldi, ti porge la mano e chiede semplicemente di scrivere con il dito grazie, a ognuno nella sua lingua. C’era gente disposta a dargli mille euro pur di farsi fare i tarocchi e lui invece si prendeva i grazie nella mano, mai vista una roba del genere. Sei una delle poche persone con cui ho parlato di queste cose. Ho visto tanti atti di psicomagia. Una ragazza non aveva mai avuto rapporti con il padre e lui le disse «chiama tuo papà», e lei «ma è morto». Allora Jodorowsky continuò «tu domani vai sulla tomba di tuo padre, ti tiri giù i pantaloni e ci pisci sopra». Lo accompagnai anche a Firenze al City Lights, dove ho conosciuto Ferlinghetti.
Ad Arezzo ti presenti con Opera Rock. Al RaRo festival l’opera classica incontra l’opera rock.
(Interviene il tour manager Ruvido) Groova, groova.
È una cosa nuova, noi la chiameremmo una data zero. Judica è uno degli attori più bravi e acclamati, un artistoide geniale. Avere i suoi interventi sul palco non sarà facile, e non essendo un mio concerto ci sarà pubblico occasionale, pubblico che passa, gli amanti del teatro lirico. Faremo un omaggio alla Callas e non so come la prenderanno da un rockettaro come me. È un concerto meno selvaggio rispetto al solito, ma questa teatralità regalerà una sacralità al viaggio di Joe che non gli abbiamo mai dato. Potrebbe diventare un tour nei teatri.
Tu non sei nuovo a questo tipo di collaborazioni.
Sì, infatti tra poco inizierò una tournée con un aretino d’adozione, Alessio Boni. Il 21 ottobre partiamo e andremo avanti per un mese e mezzo.
C’è una frase di Ferlinghetti che dice «Osa essere un guerrigliero poetico non-violento, un antieroe». Tu lo sei?
Antieroe è un titolo che da 15 anni mi frulla in testa per un album, e prima o poi lo farò, perché mi sento proprio così. Io dormo con la mia band, giro sul furgone con loro, Ruvido è uno dei capi del movimento punk milanese degli anni settanta. Joe Strummer è il nostro simbolo. Il mio pubblico non ha nessuno da adorare, hanno uno di loro che sta sopra il palco invece di stare sotto. Ho un animo socialista, anche se rifuggo i partiti politici, ma le mie scelte si vedono, dalla Palestina al buon Pippo Civati. Nei miei social a volte faccio degli interventi politici, sull’antiproibizionismo, o sugli incidenti sul lavoro, perché sono figlio di operai. Quando muore uno sul lavoro, piango. Mi tocca personalmente, pensare che una persona muoia per guadagnarsi da vivere onestamente. Al Primo Maggio quest’anno ho portato proprio una canzone su questo, visto che al Primo Maggio si sono dimenticati che è la festa del lavoro. Vanno quasi tutti lì a far promozione, e quest’anno sono andato lì con una canzone scritta per un morto sul lavoro, che non c’entra un cazzo con la promozione. Sono temi a cui tengo e antieroe mi piace moltissimo, è una parola che avrei voluto usare spesso nei miei dischi ma non ne ho avuto ancora l’occasione. Se uno nella sua vita vuole diventare Omar Pedrini, lo può fare, senza famiglie importanti alle spalle, senza partiti politici. Per uno come me non è facile, da vent’anni, scegliere di non suonare alle feste politiche, anche se mi hanno chiamato tante volte. Ho accompagnato Pippo Civati perché ha portato in giro una campagna antiproibizionista, vicina ai lavoratori e agli umili. Quelli che vengono a sentirmi sono comunque liberi di votare ciò che vogliono. Chi mi vuole bene credo che me ne voglia perché sa come sono: un vero cane sciolto, di tutti e di nessuno.
Grazie
Gea Testi
Foto di Mara Giammattei