Mary Said What She Said, di Robert Wilson

Quando si è imbranati e disordinati come la sottoscritta, confrontarsi con la perfezione estetica delle forme e dei contenuti in uno spettacolo teatrale può diventare particolarmente difficile. Mi trovo nella condizione di riflettere su qualcosa che mi è totalmente alieno ma che allo stesso tempo mi intriga; quando succede questo c’è solo una cosa da fare, ovvero stare zitti e ascoltare con le orecchie, ma anche con gli occhi.

Domenica 13 ottobre, al Teatro della Pergola di Firenze, è andato in scena per l’ultima replica Mary Said What She Said. Diretta da Robert Wilson sulla drammaturgia di Darryl Pinckney, Isabelle Huppert ci offre il racconto dei tormenti della Regina di Scozia Maria Stuart, condannata a morte dalla Regina d’Inghilterra, sua cugina Elisabetta I, che la credeva implicata di un complotto per assassinarla. In scena vediamo l’ultimo giorno di vita della Stuarda che si trova nel castello di Fotheringhay, in Inghilterra. Durante il monologo della Huppert riviviamo con lei la  giovinezza della Regina in Francia alla corte di Caterina de’ Medici. Le “four Marys”, le dame di compagnia che la accompagnavano ovunque, diventano una presenza simbolo di una vita spensierata e libera che Maria Stuart è riuscita ad avere per poco tempo.

L’arrivo in Scozia, una nazione di cui lei conosceva poco o nulla. L’astio dei Lord cattolici che mal sopportavano la sua tolleranza nei confronti dei protestanti. Il matrimonio con Lord Darnley, cugino di Elisabetta I d’Inghilterra, visto da tutti come un atto di passione piuttosto che un calcolo ragionato. L’amore accecante per il figlio James. Vediamo anche la testardaggine che solo le donne forti hanno, quando il marito le chiede la Corona Matrimoniale per poter avere i suoi stessi poteri e lei gliela rifiuta.

Per un’ora e venti il palcoscenico è stato avvolto da un’illuminazione lunare, spaccato in due e ricomposto dalla voce della Huppert e delle musiche di Ludovico Einaudi, ora violente e rabbiose, ora addolorate e tormentate. Non c’era nulla che non fosse calcolato al millimetro e anche solo guardare la perfezione dell’ombra della protagonista sul palco mi ha lasciata a bocca aperta. Mi rendo conto che quando si parla di spettacoli in cui hanno lavorato artisti di fama mondiale questa frase sia molto banale da dire, ma in compenso mi ha permesso di riflettere sulla disciplina che uno studio accurato dell’estetica porta con sé.

Spesso siamo portati a considerare il bello come qualcosa di non definibile, di non incanalabile in dei binari ben precisi, perché condizionato dalla soggettività dell’individuo. Allora penso ad Aristotele e alla sua definizione di ousìa, ovvero la Sostanza, unione di forma e materia. La forma, per quanto armonicamente perfetta, senza materia rimane priva di significato. È vero però anche il contrario: una materia ricca di senso, ma non disciplinata da una forma adeguata, rimane caotica e incomprensibile. È grazie alla fusione di questi due concetti che ciò che è bello prende vita: la ricchezza del significato viene disciplinata e guidata da una forma armonica e ben strutturata, ed è questo quello che ho visto nello spettacolo di domenica scorsa.

Vi do un ulteriore prova che quest’armonia tra materia e forma nell’opera di Robert Wilson è stata un successo. Io ero nella galleria del teatro e  avevo una visuale completa di tutto il pubblico: per un’ora e venti i cellulari di quasi mille persone sono rimasti spenti nelle borse.

Alessandra Bracciali

 

foto di Lucie Jansch