Intervista ad Alessandro Blasioli

L’Arezzo Crowd Festival è ormai finito da due settimane, questo non vuol dire che le chiacchierate su questo blog siano finite! Non potevamo certo lasciarci sfuggire l’opportunità di fare qualche domanda ad Alessandro Blasioli, giovane attore abruzzese che con il suo spettacolo Questa è casa mia ha vinto la prima edizione dello Young Theatre Contest dell’Arezzo Crowd Festival.

La storia che porti in scena è scritta sotto forma di teatro di narrazione. Perché hai scelto questa modalità espressiva invece di altre?

Sicuramente perché ne sono stato folgorato, soprattutto durante il periodo in cui ho frequentato l’Accademia di recitazione. Lì ci hanno dato la possibilità di vedere tantissimi spettacoli di vario genere. Mi ricordo la volta in cui, completamente ignorante su cosa fosse il teatro di narrazione, vidi Marco Baliani in scena con con lo spettacolo Kohlhaas e rimasi a bocca aperta. Da lì è iniziato l’interesse per questa forma teatrale.

Alla fine ti posso dire che, oltre alla mia passione personale per il teatro di narrazione, questa forma è sicuramente la più conveniente. Lo spettacolo è auto prodotto e al massimo si ricevono dei premi dai concorsi. Riducendo tutto all’essenziale il tutto è molto meno costoso e molto più facile portarlo in giro.

Quanto è importante l’elemento comico che hai inserito nello spettacolo? Perché lo hai ritenuto necessario in una storia che è così drammatica?

L’elemento comico è fondamentale in questo spettacolo, intanto perché io sono pure questo: goffo, un po’ estremo, bizzarro. A teatro non sono l’eroe, sono più un carattere, uno di quelli che ti parlano strano; è venuto naturale quindi mettere questa mia caratteristica al servizio dello spettacolo. La storia di cui si parla è tragica e proprio per questo va affrontata in maniera ironica, con il sorriso. Parlare in modo drammatico di una tragedia non credo vada ad aggiungere niente di più allo spettacolo. Il terremoto lo conosciamo tutti, siamo in un Paese sismico.

Non tutti sanno però cosa vuol dire essere sfollato, fortunatamente nemmeno io lo so, visto che sono di Chieti. Questo mi sembrava molto più interessante del racconto effettivo del terremoto che non credo avrebbe permesso alle persone di avvicinarsi più di tanto alla tragedia. Volevo che restasse un messaggio, che il pubblico potesse sentire sulla sua pelle il sentimento dello sfollato. Volevo che si comprendesse questo continuo peregrinare di persone che si sono ritrovate senza niente e in una bolla mediatica.

Per raccontare una tragedia del genere è importante cercare di cogliere l’ironia dove c’è. In questa maniera si riesce a “far sbollire” il pubblico che è entrato in tensione e che, giustamente, compatisce i personaggi della storia e la loro situazione. In questo modo si crea un attimo di rilassamento per poter far assimilare tutto quello che viene rappresentato.

Facciamo finta di avere una macchina del tempo. Qual è stato il momento in cui hai capito che era necessario portare questa storia a teatro?

Mi ricordo che fu nel 2013, quando andai in scena con la mia classe a L’Aquila. Un nostro compagno aveva messo a disposizione il Muspac, uno spazio gestito dal padre, per portare in scena un lavoro corale che avevamo fatto in Accademia. Prima e dopo lo spettacolo abbiamo avuto il tempo di visitare la città. Io mi ricordo lo stupore nelle facce dei miei compagni che provenivano da tutta Italia nel vedere la realtà aquilana nel 2013.

I primi veri segni della ricostruzione si sono iniziati a vedere nel 2015, con qualche gru in movimento. Quando ci andammo noi era ancora tutto fermo e loro rimasero sconvolti. Chiedevano a noi abruzzesi del gruppo come fosse possibile una cosa del genere, dato che loro avevano visto altro attraverso i media. Il taglio del nastro di Berlusconi il 29 settembre, i fondi che erano arrivati… sembrava che la situazione fosse diversa, invece a L’Aquila non era cambiato nulla. Io da abruzzese ero più cosciente di quale fosse la realtà, ma capii che non era così per chi proveniva da fuori.

Il terremoto c’è stato nel 2009, ma ancora non è finito perché i suoi effetti si vedono ancora oggi, la ricostruzione è lontana dall’essere completa. All’epoca, nel 2013, i ragazzi credevano che fosse tutto risolto per come ne parlavano i giornali (quando ne parlavano). In quel momento mi resi conto che dovevo fare qualcosa, che questa storia doveva essere raccontata per come era davvero.

L’occasione venne in Accademia, perché al terzo anno ogni mese di lezione era dedicato ad un argomento diverso: musical, prosa e anche teatro di narrazione. Durante quest’ultimo mese scrissi il primo quarto d’ora di quello che poi sarebbe diventato Questa è casa mia, sotto la guida di Giancarlo Fares che all’epoca era il mio professore. Ho iniziato a proporlo a vari concorsi e ha avuto una buona risposta, vincendo anche qualche premio. Era il 2014 quando completai il corto, mentre tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 decisi di scrivere lo spettacolo intero, che poi ho concluso a maggio del 2017.

Ora il salto temporale lo facciamo verso il futuro. Il terremoto dell’Aquila è stato dieci anni fa. Che Paese vorresti vedere tra 10 anni?

Vorrei vedere un Paese meno corrotto e questo a prescindere dai terremoti. Vorrei sia una classe dirigente che un popolo più responsabili per quelle che sono tematiche fondamentali come l’ambiente e la prevenzione, come nel caso del terremoto abruzzese. Vorrei vedere una legge non tanto su come affrontare il dopo sisma, che comunque non si può prevedere, ma su come si possono circoscriverne gli effetti.

Faccio questa breve parentesi: ho fatto un lavoro per il decennale del terremoto. Era una lettura con estratti da un libro pubblicato da una casa editrice aquilana nell’ottobre del 2009. All’interno di questo libro c’erano varie testimonianze di sismologi e scienziati. Mi ricordo un sismologo in particolare che “profetizzò” il terremoto di Amatrice. Spiegò che il terremoto dell’Aquila nel 1703 è stato seguito da un altro più avanti nell’arco di 10 anni nella zona di Avezzano e Sulmona. Scrisse quindi che nei prossimi 10 anni dal terremoto del 2009 ci saremmo dovuti aspettare un colpo di frusta come quello del 1703 nelle zone abruzzesi citate, oppure specularmente a nord dell’Aquila. Fece il nome di Amatrice, che oggi non c’è più.

Io tra dieci anni vedo persone che continuano a morire sotto le macerie di questi nostri bellissimi palazzi storici, se non viene fatta una corretta legge per la prevenzione del sisma. Vorrei un Paese più consapevole dei propri rischi e che quindi si adopera, investe, fa propaganda se necessario, per migliorare la staticità degli edifici e agevolare chi costruisce in maniera antisismica. Gli edifici pubblici devono essere ammodernati, soprattutto le scuole, che spesso sono in palazzi dei secoli scorsi.

All’Aquila bisogna ringraziare qualche entità superiore che il terremoto sia avvenuto di notte, con le scuole chiuse. Sarebbe stata un’ecatombe di bambini e ragazzi. Ciò che più mi fa incazzare è che ora che abbiamo gli strumenti, non tanto per prevenire il sisma, ma perlomeno per capirlo, non stiamo facendo assolutamente nulla. Un terremoto come quello del 2009 in Giappone avrebbe fatto cadere un muretto di un giardino. Certo, loro hanno palazzi moderni e noi gran parte del patrimonio artistico mondiale, ma non deve essere una giustificazione. Dobbiamo lavorare affinché questi edifici bellissimi non cadano più come un castello di carte. Questo è quello che sogno.

Alessandra Bracciali

foto di Mara Giammattei