Intervista a Marco Montanari
Oggi il blog dell’Arezzo Crowd Festival sposta la sua attenzione su una realtà aretina alquanto interessante. La sua visione, vi avverto, è pionieristica, ma vanta già un nutrito gruppo di adepti pronti a scavare la roccia più a fondo e sicuramente con più energia di ieri. Mi incontro con uno dei fondatori , Marco Montanari, da tempo impegnato nella gestione e nell’organizzazione del suo piccolo angolo di paradiso: l’Urban Creativity Lab che ha sede all’interno dello Spazio Verso. La Fondazione Verso porta avanti progetti educativi in tutto il mondo e qui ad Arezzo ha permesso la creazione di questo luogo veramente speciale, nato in collaborazione con la Casa delle Energie di Via Leone Leoni, all’interno della quale si trova.

Splende un sole timido che emerge a tratti fra i pannelli solari del pergolato sopra la mia testa. Marco esce dalla porta di quella che è casa sua, ma somiglia più a un porto di mare. Da quando ci siamo seduti a parlare, in quei minuti che l’hanno occupato per la mia intervista, sono entrate e uscite diverse persone (non le ho contate!): adulti, giovani, alcuni muniti di zaino, altri di fretta con una valigetta tecnica. Marco mi parla ed è trasparente. Il suo modo d’esprimersi è onesto e confortante, diretto, ma mai inopportuno.
Mi ha colpito la gentilezza con cui ha spiegato ogni suo pensiero, ogni suo progetto e sogno. Da quegli occhi azzurri traspare tutta la gioia della condivisione, la fame di nuovi volti e il bisogno di nuovi incentivi. Gli ho spiegato che non sono una giornalista; nel tempo libero mi improvviso intervistatrice, ma questo per lui non conta. In quel momento mi ascolta come fossi Oprah Winfrey. È elettrizzante fargli delle domande perché le sue risposte evidenziano una profonda conoscenza della nostra società con tutti i problemi che la interessano. In ugual misura però, lui propone delle soluzioni. A volte semplici, altre volte meno immediate. Fatto sta che è illuminante.
Urban Creativity Lab: da dove viene questo nome e cosa rappresenta?

Il primo nome del progetto era “Corso di sopravvivenza per sognatori utopisti” ed è nato da una fondazione che si chiama Verso, la quale opera a Firenze sostenendo progetti educativi già esistenti e finanziandone di nuovi in tutto il mondo. Difatti, abbiamo lavorato in India, Bolivia, Burkina Faso, Nicaragua ecc. In Italia adesso abbiamo attivi tre progetti: il primo si focalizza sulla formazione degli educatori (si tratta del tema che ci interessa maggiormente), il secondo si incentra sulla meditazione e sulle varie tradizioni meditative, mentre il terzo è questo. Urban Creativity Lab si chiama così perché in primis si tratta di un laboratorio dove si sperimentano varie cose, in secundis parliamo di un progetto urbano perché è calato in un contesto cittadino sia dal punto di vista fisico, sia perché ciò che proviamo a fare speriamo possa ricadere sulla città, con una specie di effetto boomerang.
Ovviamente, creatività è la nostra parola d’ordine, perché la creazione di novità è senza dubbio la nostra linea guida. Volevamo dar vita a uno spazio per adolescenti e giovani che fosse al tempo stesso sempre aperto anche ai cittadini (i nostri orari d’apertura si concentrano nei pomeriggi almeno dalle 3 alle 6, ma spesso vengono estesi). Si può venir qui per fare praticamente ogni cosa; dormire, leggere, godersi lo spazio, lavorare al computer.
Inoltre, si possono creare dei corsi di formazione e autoformazione ribaltando l’approccio formativo tradizionale. I centri formativi (soprattutto la scuola) danno risposte prima ancora che in noi sorga il desiderio di porre delle domande. Noi qui non cerchiamo di dire agli adolescenti cosa devono studiare o imparare, ma vogliamo capire insieme a loro cosa vogliono fare, conoscere, e magari poi loro stessi insegnare creando corsi, occasioni di incontro sulla base di questi stessi desideri.
Alcuni corsi sono proposti dagli educatori residenti (io e la mia collega Francesca Barbagli, che è una psicologa) come ad esempio “Autostimami”, un corso di crescita personale o “Filosofia in serie” (un corso che si sviluppa attorno alla visione di alcune serie tv) che gestisco io non per insegnare filosofia, ma per fare filosofia assieme. Se qualcuno sa qualcosa e vuole insegnarla, qui può farlo.

Siamo tutti a disposizione di tutti; chiunque può proporsi per un corso o chiederne uno. Decisamente importante è la fase di progettazione; spesso non abbiamo chiari i nostri desideri, che sono per lo più indotti dal mondo esterno. Qualora li avessimo chiari, non sempre conosciamo i passaggi necessari per ottenerli. Ecco perché sperimentarli nel piccolo, incontrarsi e pianificare un progetto può servire per capire come funziona la progettazione e imparare a farla così sul grande.
Vogliamo coinvolgere persone che hanno fatto cose interessanti e belle nella vita proprio per raccontare le loro esperienze e condividerle. C’è chi a 27 anni lavora nell’antimafia ma è al tempo stesso un insegnante di lettere che da anni salva i bambini in strada in Nicaragua, oppure c’è un ragazzo che a 25 anni vuole essere un giornalista, così se ne va a vivere a Roma in tenda (perché non ha abbastanza soldi) diventando così il vicedirettore del Post nonché l’autore del podcast sulla politica americana più di successo di sempre (Francesco Costa).
In questo progetto artistico e sociale, che accomuna e unisce i sogni e i desideri di molti, gli iniziatori che hanno creato questo progetto come hanno fatto a ideare l’Urban Creativity Lab?
L’idea nasce dalla mia collega Francesca Barbagli che voleva creare uno spazio dove i ragazzi e le ragazze che non si riconoscono in quello che la realtà esterna gli propone si riunissero per prendersi il loro posto nel mondo. Quando ci siamo chiesti come farlo, ovviamente avevamo moltissime idee, fra le quali alla fine abbiamo scelto la più semplice: riunire tutti i ragazzi e le ragazze che conoscevamo e vedere cosa sarebbe accaduto. Da lì sono nati un paio di corsi. Nello specifico, uno si proponeva di riunire giovani universitari provenienti da varie zone d’Italia per portarli a raccontare quale fosse la vita universitaria vera e propria (cosa mangiavano, cosa studiavano, a che feste andavano…). Noi avevamo e abbiamo ancora oggi una serie di idee che penso siano anche più avanti rispetto a ciò che fino ad oggi abbiamo realizzato.
Un obiettivo che ci siamo prefissati è quello di procedere parallelamente al gruppo, ossia di creare questo spazio insieme alle persone residenti, che ci abitano dentro, anche a costo di molta anarchia e di piste cieche che non portano a niente. Ciò vale sia per i contenuti che per il nostro arredamento, per cui è un caos (ride, ndr) che prende forma col tempo mantenendo ben fissi alcuni concetti di fondo sui valori di cooperazione e di relazione, creandoli però con chi ne fa parte.
Abbiamo infatti uno staff che periodicamente si riunisce per organizzare il lavoro (una ventina di ragazze e ragazzi); quelli che gravitano qui attorno sono molti di più. Non tutti hanno voglia di coordinare lo spazio, infatti molti vengono qui a studiare o anche solo a incontrare altre persone. Per far parte dello staff organizzativo basta esprimere la propria volontà e nulla di più; non ci sono iscrizioni, nessun altro vincolo. Si può transitare liberamente.

L’approccio al co-working e il gioco di squadra che fonda in tutto e per tutto il vostro laboratorio ti sono sembrati difficile in fase di partenza?
La prima difficoltà interna direi che si riscontra nella continuità della presenza organizzativa. Tutti hanno molti impegni; oggi l’agenda di un quattordicenne rispecchia in toto quella di un manager di successo, quindi è difficile trovare spazi per collaborazioni continuative anche quando alla base c’è il desiderio di farlo. Molte persone vengono perché dicono di stare bene qui, ma hanno difficoltà a prendersi impegni a lungo termine. Dobbiamo trovare delle modalità diverse per riuscire a incastrare questa difficoltà a prendersi un impegno in modo indeterminato, mossi da un profondo desiderio di farlo.
Si tratta di un problema sociale, collettivo e non di certo imputabile al singolo. Inoltre, un’altra difficoltà è quella di capire quali siano i desideri di ognuno. La focalizzazione dei desideri è abbastanza importante, per cui portarli allo scoperto non è cosa da poco. Se non partiamo con degli obiettivi precisi, continuare un percorso non può essere facile. I problemi esterni, essenzialmente, hanno a che fare col raggiungere le persone. Arezzo è una città curiosa: le persone hanno miriadi di iniziative interessanti, ma fra loro non comunicano.
C’è sorpresa nell’apprendere che attorno a noi si hanno moltissime attività, molti luoghi, molte persone con interessi simili ai nostri, è una scoperta pazzesca. Siamo senza dubbio in difficoltà in questo. Vogliamo poter raggiungere le persone potenzialmente interessate a noi.
C’è da dire che via via abbiamo avuto collaborazioni interessanti come ad esempio con Farrago e questa cosa ha conseguentemente portato benefici sia a loro che a noi. In generale, ci piacerebbe diventare un “hub”, ossia chi fa cose ad Arezzo può avere a disposizione uno spazio con una sua innata identità ma tale spazio è pronto a plasmarsi a seconda delle aspettative e dei desideri degli altri. In pratica, finirebbe per diventare un punto d’unione. Uno dei nostri modelli è stato “Impact hub”; un format internazionale che contiene del co-working, ma che fa anche da incubazione per molte altre cose. Speriamo di poterci caratterizzare in maniera simile, ma a modo nostro.
Hai notato nei giovani (categoria particolarmente delicata oggigiorno) delle abilità artistiche e umane, relazionali che – a discapito di quanto possano essere danneggiate dai social e dai media – hanno trovato qui da voi del terreno fertile?
Onestamente credo che siamo in un’epoca di grandissimo mutamento antropologico. La rivoluzione digitale è paragonabile all’invenzione della scrittura; trasforma radicalmente il nostro approccio a cosa è reale e a come ci confrontiamo con la realtà. In questo senso, sono convinto che questo sia un mondo che non sappiamo abitare. Fra le mani abbiamo una grande ricchezza, forse si tratta della più grande impresa della nostra specie.
Alcune funzioni che non avevamo si stanno atrofizzando e va da sé che vadano prontamente recuperate. Siamo all’altezza della sfida, ma siamo in mezzo alla sfida. Come sempre in questi casi, varie generazioni devono barcamenarsi fra un prima e un dopo per capire cosa vogliono diventare. Detto ciò, credo che il nostro tempo prema molto su un messaggio: “Devi essere creativo, felice e realizzato”, ma tutto questo corollario è posto come un’ingiunzione.

Queste cose non sono imperativi, non possono venire da un ordine, ma da un sentito bisogno personale. La creatività oggi non è libertà, ma un’imposizione per cui ognuno di noi è un mero soggetto di performance. In questo senso credo che avere uno spazio in cui la caratteristica principale sia “Non giudicare”, dove la sperimentazione e il fallimento sono accettati per principio, sia fondamentale. La scuola per prima dovrebbe essere così; creare e fallire coincidono. Senza errore non c’è lezione da imparare.
Da ex- studentessa di liceo classico, guardo indietro e in pochi anni noto che si è conclusa un’era. Quell’inveterato strato di polvere è stato letteralmente spazzato via; pensi che nel futuro questa vostra realtà potrà essere “la nuova normalità”?
Il desiderio era creare un modello. Per farlo bisogna avere un’idea, sbagliare, sbagliare tanto, anche troppo. Trarne conoscenza e provare a migliorarsi. Speriamo che l’idea sia seminale. I singoli ragazzi che qui hanno seguito dei corsi e avuto modo di costruirsi la loro personale esperienza, magari andranno da un’altra parte a creare il loro spazio, a dar vita a un loro progetto. Avrà un altro nome, benissimo, non importa. Avrà qualcosa a che fare con noi? No, va altrettanto bene. La speranza è quella di lasciare una scia; significherebbe molto per noi.
Cosa ti senti di dire a tutti i giovani che leggeranno questo articolo?
Mi sento di dirgli quello che dico a me stesso ogni mattina: ”Desiderate, desiderate, desiderate quello che non c’è”. Non siamo fatti per pescare nel mazzo, fra ciò che già esiste. Desiderare quello che non c’è è futuro.
Arianna Sofia Staderini